L’area archeologica dei fondi ex Cal e beneficio Rizzi – posta sul lato occidentale della attuale via Giulia Augusta, di fronte allo sbocco di via Patriarca Popone –  è del tutto incomprensibile per il visitatore occasionale. Una idea più chiara si ha nella visione dall’alto (fig. 1).  Essa  dal momento dello scavo ha una storia interessante, purtroppo non inusuale in Aquileia.  Infatti è rimasta sostanzialmente inedita e solo in anni recenti Patrizio Pensabene, Enrico Gallocchio, Flaviana Oriolo, Monica Salvadori e Caterina Previato  hanno dedicato ad essa approfonditi studi.
La casa del Beneficio Rizzi, posta nella parte nordoccidentale dell’area, sfugge alla massa dei visitatori, che non sospettano che vi possa essere qui uno scavo visitabile. Per molto tempo la parte messa in luce è stata considerata esempio tipico (e completo) di una domus aquileiese. Di essa sono stati studiati, separatamente e in momenti diversi, i mosaici e le pitture, nonché  si è fatto spesso  riferimento a una serie di pesi da telaio rinvenuti in un vano del lato settentrionale, ritenuto luogo della tessitura praticata in casa.  Degna di nota la presenza di una piccola latrina a uso familiare presso l’angolo nordovest, adiacente a un vano già inteso come cucina.
Dopo i primi ritrovamenti effettuati nel 1948, Giovanni Brusin concepì l’idea di rimettere totalmente in luce un quartiere abitativo sopra il quale non esistevano costruzioni di età postromana. I lavori furono effettuati dall’Associazione nazionale per Aquileia e interessarono circa 20.000 metri quadrati di superficie. Molte parti vennero poi ricoperte, mentre  furono lasciate in vista solo le strutture ritenute più importanti.

Ulteriori scavi e restauri furono effettuati tra 1967 e 1975, quando i mosaici, strappati, furono ricollocati su soletta di cemento.
In quell’occasione furono individuati quattro strati di pavimentazioni, anche se  il loro accordo con gli alzati non è più possibile.
La casa presenta oggi una corte quadrangolare delimitata a sud da un muro  di recinzione: sugli altri lati si affacciano vani, tra cui il più importante, a est, era il tablino, ovvero la sala di ricevimento. Di seguito le fasi come individuate da Pensabene e Gallocchio.

Prima fase (databile alla seconda metà del I sec. a. C.) (fig. 2): al livello inferiore, sotto il vano che successivamente sarebbe divenuto il tablino,  esisteva un drenaggio di anfore, visibile in una foto dell’archivio del museo: esse, poste come d’abitudine capovolte, sono state variamente interpretate ovvero come  di tipo Dressel 6B (Pensabene, Gallocchio  2012) o di tipo Lamboglia 2 (Oriolo, Salvadori 2009). Il loro riconoscimento nei magazzini del museo, ove effettuato, permetterebbe di risolvere un problema cronologico. Al drenaggio si collegavano muri formati da tegoloni frammentati, databili all’età tardorepubblicana antecedente al periodo augusteo (Previato 2015, pp. 301-302). e forse le più antiche decorazioni pittoriche (Oriolo, Salvadori 2009) (fig. 3) seeffettivamente queste derivano dalla demolizione di un soffitto della medesima casa.

Nella seconda e nella terza fase la domus assunse l’aspetto che ancora oggi vediamo, articolata intorno a un peristilio. La seconda fase è stata datata alla metà del I sec. d. C. Forse ad essa appartiene il mosaico con bordura di grifi (fig. 4).

 

 

La terza fase (fine I – inizio II sec. d. C.) vide dei tamponamenti, ricoperti da pitture con prospetto architettonico (fig. 5).

Al di sopra di queste pitture, probabilmente alla metà del III secolo, venne stesa una nuova decorazione, di cui rimangono solo pochi frammenti (fig. 6).

Una quarta fase, parimenti mosaicata,  è stata attribuita alla seconda metà del II sec. d. C.

Infine il tutto venne ricoperto da una nuova sistemazione il cui piano pavimentale era posto a 80 cm al di sopra di quello della media età imperiale. Di questa fase si sa ben poco, perché si privilegiarono, nella presentazione, le fasi della prima e media età imperiale.

 

 

I fondi ex Cal
È la parte adiacente al tracciato della moderna strada. Rimasta praticamente inedita dal momento dello scavo (primi anni Cinquanta) quando Giovanni Brusin aveva già chiuso la sua esperienza di archeologo della Soprintendenza, l’area rimase aperta al pubblico finché “per ragioni di sicurezza” venne poi interdetta, per essere nuovamente riaperta negli ultimi tempi.
Di essa il visitatore coglie immediatamente la costruzione nell’angolo nordovest, che comprende, a mo’ di edificio sacro, un pavimento tardoantico con un’abside semicircolare: in esso vi è l’immagine del così detto Buon Pastore. È questo uno dei tanti presunti “sacelli paleocristiani” che la critica – e al suo seguito la larga divulgazione – ritenne di vedere in un apprestamento architettonico, proprio dell’architettura di prestigio tardoantica. Solo a partire dagli anni Settanta del Novecento in Europa – più tardi in Aquileia – essi furono intesi come spazi privilegiati all’interno di abitazioni di lusso. Il risultato della nuova costruzione è che sostanzialmente il mosaico stesso è sottratto alla vista.  Nondimeno, essa ha permesso una maggior conservazione del pavimento musivo, mentre tutti gli altri all’aperto hanno subito un marcato degrado.
Sono state  individuate cinque fasi, pertinenti a unità abitative che nel corso del tempo si sono accorpate e divise. La scansione è pressoché la stessa di quella che si è rilevata per la casa del Beneficio Rizzi.

Dalla carta qui riprodotta si vede bene che in origine vi erano più unità abitative affiancate (forse in origine divise da una stretta calle) (fig. 7). In quest’area è stata individuata specialmente la fase di ampliamento, probabilmente in seguito all’unione di più unità immobiliari, datata all’età costantiniana o comunque ai decenni centrali del IV secolo d. C.In quell’epoca il livello fu rialzato di 80 cm. Purtroppo questa fase tarda è anche quella peggio conservata, a motivo dei danni causati dall’attività agricola.

Le parti meglio riconoscibili sono tre (fig. 8). A Nord il così detto sacello del Buon Pastore, al centro una vasta aula e a Sud un’altra aula absidata, affiancata da vani laterali.
Il così detto oratorio del Buon Pastore deve il suo nome alla raffigurazione dell’emblema centrale (fig. 9).
Come nei mosaici africani, su ogni lato le figure si volgono verso l’esterno, così che non vi è una visione unica. Nei riquadri – ottagoni entro quadrati a loro volta entro quadrati inclinati di 45 gradi, – abbondano oggetti, volatili, pesci. Compaiono anche quattro busti  con indubbio riferimento alla tematica e allo stile dei mosaici dell’aula sud della basilica teodoriana.
L’abside fu probabilmente aggiunta in un secondo tempo: il suo pavimento è in semplici cubetti di cotto poiché al di sopra vi erano  i letti tricliniari (stibadium), disposti a semicerchio intorno alla mensa circolare o semicircolare, secondo un’innovazione che viene attribuita all’imperatore Elagabalo. Il convitato più importante era al posto d’onore, in margine dextro, mentre all’altro ospite di maggior riguardo era assegnato il primo posto a sinistra: tutti gli altri, erano collocati in ordine decrescente di importanza, da sinistra a destra.

Come nel tablino della seconda fase della casa del beneficio Rizzi (per cui si veda sopra) il vano in cui si svolgevano le coenae si affacciava su un ampio cortile porticato. Nel caso del fondo CAL probabilmente l’ingresso a questa parte era posto direttamente sulla strada, in modo da favorire gli invitati. Il porticato esterno fu costruito utilizzando spolia ovvero parti di monumenti ed edifici più antichi, come era usuale in età tardo antica – si pensi all’arco di Costantino – e ciò ha fatto pensare che il proprietario fosse un alto membro dell’amministrazione, civile o militare, cui tale prassi fosse permessa.
Dunque il vano non ha alcun riferimento con il cristianesimo, come per molto tempo si è creduto, e tantomeno con la celebrazione di cerimonie religiose.
Il vano centrale

Le foto di scavo mostrano molto bene la quota del grande vano, decorato da un mosaico solo in parte conservato (fig. 10).

L’ipotesi di ricostruzione del pavimento (fig. 11) rivela una indubbia somiglianza con la decorazione musiva del così detto oratorio del Buon Pastore.

 

 

 

Il nucleo meridionale

Altro spazio absidato posto a meridione, già  interpretato come oratorio (fig. 12), è ora inteso come parte di un piccolo complesso a carattere termale. Le terme private erano una componente essenziale del lusso e spesso esse erano poste in stretto collegamento con la sala dei banchetti.

 

L’area nel periodo medievale e postmedievale
Immediatamente a nord della zona scavata, grosso modo in corrispondenza dell’officina dei Fratelli Bandiera esisteva, fino alla metà del XVIII secolo un palazzo della famiglia Savorgnan.
Gian Domenico Bertoli ce ne ha tramandato un disegno risalente al 1749 (fig. 13): esso presenta una sola torre, mentre nella veduta di Aquileia del 1683 ne compaiono due. Di questo, e di molti altri monumenti di Aquileia medievale, non è rimasta alcuna traccia.

Autore: Maurizio Buora, mbuora@libero.it

Leggi anche: Ledilizia_privata_antica_di_Aquileia_pro

Vedi anche: Contributo_per_la_storia_del_quartiere_r – Enrico Gallocchio, Patrizio Pensabene. Contributo per la storia del quartiere residenziale sud-ovest di Aquileia: i fondi ex CAL e bneficio Rizzi.

Nota:
Un muro misterioso ad Aquileia
Muri, muri, muri. Ce ne sono tanti. E di pochi conosciamo con una certa sicurezza data e funzione.
In uno degli scavi più sfortunati di Aquileia, quel fondo CAL che si ostina a rimanere per molti oscuro e che non fu neppure pubblicato – se non solo per un mosaico – dal Brusin, che lo scavò nel 1954, c’è un muro che si segnala per la sua singolarità. Molti osservano una tubatura in cotto (che oggi minaccia di disintegrarsi) che sfregia l’area di scavo (fig. 1). Pochi sanno che è l’acquedotto teresiano che portava l’acqua alla fontana di piazza S. Giovanni, posta davanti alla vecchia chiesa parrocchiale di Aquileia. Il muro di cui trattiamo è perfettamente allineato con il tracciato della tubatura in cotto settecentesca (fig. 2). Ma “stona” con l’andamento di tutti gli altri muri delle varie fasi del complesso, pur avendo una struttura, formata da elementi lapidei e laterizi, perfettamente analoga a quella dei muri tardoantichi. Dunque? Che vi sia stato un acquedotto in età tarda e proprio all’interno di questo i tecnici di età teresiano abbiano inserito le loro tubature? Non parrebbe affatto strano.
Uno scavo (forse) lo accerterà. Per ora accontentiamoci di avanzare un sospetto.

Maurizio Buora

Didascalie:
Fig. 1 Nella pianta di Aquileia di Luisa Bertacchi (2003) si vede bene la linea obliqua dell’acquedotto.
Fig. 2. Visto da ovest, il tratto di muro perfettamente allineato con l’acquedotto settecentesco, al limite di esso (foto M. Buora).

Vedi anche: Le torri savorgnane di Aquileia di Maurizio Buora
Verso la metà del Settecento vi fu una serie di dismissioni e modifiche della proprietà terriera dei Savorgnan in Aquileia.
Nel 1747 un appezzamento detto “il Tor d’Arena” fu ceduto in permuta ai nobili Moschettini. I Savorgnan, insediatisi in città fin dal Trecento, avevano allora la loro abitazione principale a Belvedere, ma evidentemente conservavano i loro beni nell’ambito dell’antico centro patriarcale. Questi passaggi di proprietà forse indussero Gian Domenico Bertoli a occuparsi delle torri Savorgnane…

Vedi anche: Aquileia: la vita privata, a cura Istituto Comprensivo di Palmanova, Scuola Secondaria di I° grado “P. Zorutti”.

 

Periodo Storico: Età Romana
Localizzazione Geografica